
Già tutti i Greci, che la nera Parca Rapiti non avea, ne' loro alberghi Fuor dell'arme sedeano e fuor dell'onde; Sol dal suo regno e dalla casta donna Rimanea lungi Ulisse: il ritenea Nel cavo sen di solitarie grotte La bella venerabile Calipso, Che unirsi a lui di maritali nodi Bramava pur, ninfa quantunque e diva. E poiché giunse al fin, volvendo gli anni, La destinata dagli dèi stagione Del suo ritorno, in Itaca, novelle Tra i fidi amici ancor pene durava. In questo mezzo gli altri dèi raccolti Nella gran reggia dell'olimpio Giove Stavansi. E primo a favellar tra loro Fu degli uomini il padre e de' celesti, Che il bello Egisto rimembrava, a cui Tolto avea di sua man la vita Oreste, L'inclito figlio del più vecchio Atride. Quando a se stesso i mali Fabbrica, de' suoi mali a noi dà carco, E la stoltezza sua chiama destino. Ma io di doglia per l'egregio Ulisse Mi struggo, lasso!
E me ne approfittavo. Questo lo so. Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ebbene, si accomodi. Ma è mio dovere avvertirlo che non si tratta propriamente di questo. E allora? Ecco: il mio caso è assai più strano e diverso; tanto diverso e strano affinché mi faccio a narrarlo. Fui, per circa due anni, non so se più cacciatore di topi che custode di libri nella biblioteca che un monsignor Boccamazza, nel , volle lasciar morendo al nostro Comune.